WIMBLEDON – Gli anni Sessanta, si sa, sono stati un decennio di grandi cambiamenti. Molti dei quali, hanno avuto origine proprio in Inghilterra. Nella patria dei Beatles e della minigonna, il 1960 è stato un anno particolare, anche nello sport. Soprattutto a livello femminile.
A Wimbledon, la brasiliana Maria Ester Andion Bueno bissa il titolo conquistato l’anno precedente (prima, ed ancor oggi unica, sudamericana a riuscire nell’impresa). Ma se nel ‘59 aveva avuto ragione della statunitense Darlene Hard, l’anno successivo a contenderle lo scettro era stata la sudafricana Sandra Reynolds Pryce (prima tennista del suo continente a raggiungere l’ultimo atto dello slam londinese), in quella che fu la prima finale dei Championships della storia senza una tennista europea o nordamericana.
Sessantadue anni dopo, i prati londinesi riabbracciano nell’evento conclusivo una tennista africana (stavolta del nord). Nata a Ksar Hellal il 28 agosto del 1994, Ons Jabeur è stata soprannominata dai suoi concittadini tunisini “Ministro della felicità”. Una definizione che non stupisce gli appassionati che seguono il circuito femminile, che anzi ricalca perfettamente il carattere della numero due del mondo dal tennis tanto vario quanto armonioso. Una caratteristica, quella di Ons, che anche Iga Swiatek non aveva mancato di sottolineare dopo averla sconfitta in finale a Roma: “Ons è davvero una persona carina; sta portando un’atmosfera positiva in tutto il tour, è fantastica”. Qualità umane a cui si aggiungono le indiscusse doti tecniche, se è vero che anche Serena Williams, per preparare il rientro a Wimbledon, aveva scelto proprio la tunisina per far coppia in doppio ad Eastbourne.
È stata una crescita lenta quella di Jabeur, frenata dai troppi infortuni. Come quello che la colpì nella finale (la prima in carriera) della Kremlin Cup (2018) impedendogli di giocarsi al meglio le sue chance e che pure portò avanti, per rispetto del pubblico e dell’avversaria, onorando il campo fino alla fine. La prima gioia, sui prati di Birmingham, risale alla scorsa estate. Quest’anno, dopo il prestigioso successo sulla terra rossa di Madrid (prima tennista africana a conquistare un 1000), Ons ha inaugurato la stagione su erba trionfando a Berlino. Non sembra un caso, che la prima finale slam della carriera sia proprio a Wimbledon.
Se l’approdo all’ultimo atto della numero 3 del tabellone non può certo definirsi una sorpresa, lo è senz’altro quello di Elena Rybakina. Nata a Mosca il 17 giugno del 1999 e naturalizzata kazaka, la numero 23 del mondo (2 titoli conquistati in carriera) che guida la classifica stagionale degli ace nel circuito WTA, ha vissuto una stagione altalenante. Dopo un ottimo avvio (finale persa in gennaio ad Adelaide contro Ash Barty), Lena è stata condizionata da un infortunio che l’ha costretta al ritiro sia a Sydney che agli Australian Open. Poi, il covid a San Pietroburgo. Rybakina ci ha messo un po’ a carburare. Ha raggiunto i quarti di finale ad Indian Wells, si è difesa sulla terra rossa (terzo turno a Roma e Parigi), prima di inaugurare la stagione su erba con due sconfitte su tre match giocati prima dei Championships.
Non certo il miglior viatico in vista di Wimbledon. Poi, evidentemente, per raggiungere la prima finale slam della carriera, deve essere scattato qualcosa nella testa di Elena, che l’anno scorso aveva messo nel mirino la top ten e che all’inizio di questo 2022 (17 gennaio) si era issata fino alla posizione numero 12 della classifica (best ranking). La calma ostentata, l’atteggiamento pacato di chi si culla nella propria quiete sperando di poter preservare un’intima condizione di rifugio lontano dal frastuono della realtà, forse ha definitivamente lasciato strada alla voglia di liberarsi e sbocciare definitivamente. “È tempo di divertirsi davvero in campo”, ha detto dopo la semifinale. 
Comunque vada, in questo gran ballo delle debuttanti sul palcoscenico della storia, ci sarà una prima (indimenticabile) volta.
			

















